Palazzo Russo, già Armao
Quest’edificio si può ascrivere meglio di molti altri casi urbani alla tipologia palaziale. Infatti, la sua dislocazione, il suo impianto e i suoi apparati decorativi furono concepiti con un progetto elaborato per un immobile che sarebbe sorto ex novo, senza adattamenti di fabbriche più antiche, proponendosi come prima forma di architettura “colta” nella città. La sua realizzazione fu intrapresa nel 1755 dal barone don Giovan Battista Armao, rampollo di una tra le più facoltose famiglie del posto, abilissima nei commerci di seta, olio e formaggi, con interessi che si radicavano anche nel vicino centro di S. Stefano, dove il padre Michele era stato Governatore del Duca di Camastra dal 1708, divenendo armatore di alcune feluche e persino di qualche brigantino.
Così, Giovan Battista rientrava dell’orbita del più antico lignaggio siciliano, sposando Vittoria Valdina, e intraprendeva l’edificazione di un’autentica residenza patrizia in un luogo che, in parte già posseduto, potesse affermare uno straordinario peso rappresentativo verso la città e che, allo stesso tempo, si aprisse verso la campagna, anche a costo di fare “tabula rasa” delle preesistenze.
Questa dimora signorile si eleva come un blocco parallelepipedo monumentale, rinserrato da cantonali corpulenti, e gerarchizzato dall’avvicendamento in altezza delle officine, dell’ammezzato (per i rami cadetti della famiglia), del piano nobile e del mezzanino (per la servitù). A tutti i livelli si distinguono finestre e balconi con mostre, mensole e ballatoi in arenaria, ringhiere a petto d’oca e grate in ferro battuto. Fa eccezione il registro del mezzanino sulla facciata principale, dove recentemente (2008), entro cinque medaglioni quadrilobati, sono stati rinvenuti altrettanti rilievi in stucco che riproducono mezzi busti di personaggi togati e coronati d’alloro, probabile reminiscenza di glorie imperiali che il committente voleva relazionare al proprio casato.
Il palazzo, comunque, trova il suo momento scenografico più alto nell’articolato scalone: posto come fondale dell’atrio, esso filtrava il corpo edilizio col retrostante giardino all’italiana (oggi scomparso), attraverso un portale frapposto tra le due rampe iniziali e sottoposto alla terza che, di ritorno, approda alla loggia con tre fornici aperti sul cortile. Si attuava così un “cannocchiale” prospettico molto suggestivo che inquadrava ed enfatizzava in un solo colpo d’occhio l’intera profondità dell’edificio, dal grande portale della facciata al fondale del giardino. Inoltre, si definiva un seducente percorso ascensionale verso il pano nobile dove i saloni si presentavano con volte affrescate e pavimenti maiolicati. Tutto ciò nulla invidiava ad analoghe ed auliche residenze aristocratiche di Palermo e Bagheria che si erigevano proprio nello stesso periodo, svelandoci una completa adesione alle tendenze artistiche dell’epoca. Il cantiere si protrasse per vent’anni e pare concludersi nel 1775, come attesta la datazione incisa in un blocco lapideo del sottotetto.
Michele, figlio di Giovan Battista, assurto alla baronia di Grotte ed Alì, fu riconosciuto regio Cavaliere e ricoprì quasi ininterrottamente il ruolo di Giurato per tutto l’ultimo quarto del XVIII sec. Sempre su committenza degli Armao, i saloni furono affrescati da Francesco la Farina nel 1832 con figurazioni di tipo neoclassico. Dopo di che, nella seconda metà del XIX sec., il palazzo perveniva al Cav. Giovanni Russo che sposava donna Remigia Catania, esponente di un’altra importante famiglia del centro. Il possesso detenuto dai Russo rimase nella comune identificazione del palazzo, obliterando quasi completamente la memoria degli originari proprietari e costruttori del monumento. (A. Pettineo)